Fibre e colorazione
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Lana

In un primo tempo si usavano tessuti in lana che a secondo della loro qualità si dividevano in due generi: il cosiddetto panno che è formato da una qualità di lana più forte e più ruvida detta lana rustica, ed un panno più leggero formato da una lana più fine detto franninella . Il primo panno più forte e doppio serviva per gli abiti ed i mantelli dei mandriani e contadini, i quali, essendo più esposti alle intemperie avevano bisogno di un vestito che mantenesse caldo e nel contempo fosse impermeabile all'acqua; il secondo panno serviva per i vestiti del ceto medio borghese perché più fine e più da comparsa, come la farigghia (gonna tutta pieghettata di cotone o lana a colori diversi). Entrambi i tipi, dopo tessuti, venivano messi alle gualchiere per divenire doppi e più resistenti.

A Longobucco, la lana veniva ricavata dai pascoli locali. Gli uomini si occupavano della tosatura delle pecore e alle donne spettavano le operazione successive: esse portavano a lavare la lana ancora sporca ntrà jumara (nel fiume). Qui la bollivano in una quarara (pentola molto grande) insieme a del sapone fatto in casa. Veniva lavata e risciacquata numerose volte, infine messa ad asciugare al sole su dei grandi teli bianchi. Una volta asciugata si portava nelle proprie case, qui si separava a seconda del colore e del pregio. Dopo queste operazioni, la lana si scarminiava (spelazzava), per togliere i residui spinosi, si cardava (pettinava con un cardo), per districare e allineare le fibre.

Ridotta in batuffoli si filava con la cunocchia (conocchia) e fuso, torcendola per renderla in fili sottili. Dopo l'operazione di filatura, la lana, veniva avvolta aru matassaru (all'aspo) per formare le matasse.

Seta

Con l'introduzione della coltura del baco da seta, si formavano due qualità di tessuti: quelli di cascame o capisciola e quelli di seta propriamente detti. Per formare i primi c'era bisogno che i bozzoli, dopo sfarfallati, venivano bolliti e poi sfilati, mentre i secondi venivano filati senza ebollizione, sicché ne usciva un filo lucido che formava i più bei tessuti.

L'allevamento del baco da seta e la produzione di bozzoli aveva carattere piuttosto familiare: le allevatrici acquistavano le uova del baco e le tenevano al caldo aspettando che i bacolini venissero fuori dal guscio iniziando così la loro breve esistenza. Altri invece compravano i neonati di baco e li nutrivano con foglie di gelso triturate, poi li collocavano nei cosiddetti canonizzi (graticci di canne a più piani). I bachi mangiavano tre volte al giorno per cinque giorni, poi si addormentavano. Al risveglio perdevano la pelle che veniva sostituita in breve tempo con altra per ben quattro volte. Questa operazione si chiamava spoglia, la penultima era denominata tritu e l'ultima casarru. Quando il baco non aveva più fame e rifiutava di cibarsi, si chiudeva nel bozzolo e cominciava a costruire la sua dimora con la bava, producendo un filo di seta lungo circa un chilometro. Lo si trasferiva allora nella cunocchia formata da mazzi di ginestra essiccata e piegata a nodo, qui il baco portava a termine il suo lavoro fino a quando il bozzo diventava duro; allora le tessitrici iniziavano l'opera di scunucchiatura, essa consisteva nel soffocare (stuffare) il baco, immettendo nell'ambiente aria molto calda (80°/90°), poi immergevano il bozzolo in bacinelle di acqua calda dove si batteva con i cosiddetti manganeddi, arnesi in legno che lo ammorbidivano facendo uscire fuori il filo di seta. Si preparavano quindi le matasse che venivano vendute alle filande o alle tessitrici.

Colorazione

La colorazione della lana e della seta si faceva con preparati del luogo a base di erbe, cortecce di alberi, radici, tartaro, detriti di ferro misti ad acqua lavorati dai fabbro-ferrai. Questi colori erano di tinte inalterabili all'acqua, al sole, al bucato e sfidavano con l'inalterabilità persino i secoli.
I colori principali erano: il nero, il rosso, il caffé, il blu o il celeste, l'arancio, il giallo e il verde; mentre oggi si usa qualsiasi varietà di colori per soddisfare qualsiasi genere di gusto ed esigenza di abbinamento alla propria casa.

Come i colori, anche il metodo di preparazione è cambiato: oggi l'introduzione delle aniline (ricavate dal catrame di carbone) è stata una svolta. Infatti è stato messo subito in uso per colorare cotoni, lana e seta.

Il vecchio metodo di colorazione è conosciuto solo da poche anziane e va man mano scomparendo, poiché non se ne fa che un ristrettissimo uso a causa dell'introduzione in commercio di altri colori più vivi e più smaglianti e molto meno fastidiosi e costosi dei primi.

Come osservava Alberto Sautier, << l'abbandono degli antichi metodi di tintura a base di sostanze organiche, di cui non conosciamo qualche ricetta, è un grave ostacolo alla ripresa o rinascita di questo ramo dell'industria artistica. Dove sono più le stoffe che formavano la delizia del sesso gentile, per le loro tinte e sfumature gustose? Sono scomparsi i colori cremisi, incarnato, lionato, cilestre; il color verde topo che era quello preferito per il busto dalle popolane del Lazio; il color petto di tortora, che era prescelto per gli abiti di seta; il color fragola, per le camiciole; l'azzurro tenero con disegno di rose bianche, rosse, gialle; il color vino rosso per le vesti di cotone ed ancore gialle>>.

Ginestra

Inoltre a Longobucco il filo veniva estratto anche dalla ginestra.

Nei mesi di Luglio-Agosto, quando la ginestra raggiungeva la piena maturità, le donne di buon mattino, si recavano nei boschi per i ripidi burroni, per tagliare i rami che venivano raccolti in manipoli. Questi venivano a loro volta ripiegati su se stessi in modo da formare dei mazzetti della lunghezza di 20-25cm e poi legati in grossi fasci del peso circa di 10kg ciascuno e portati alla riva del fiume per l'operazione di scarto. Qui, dopo essere stati selezionati e legati di nuovo a mazzetti, venivano tuffati in grandi caldaie di rame per essere bolliti. L'operazione di bollitura durava da quattro ad otto ore, tempo durante il cui, i mazzetti venivano rivoltati e capovolti per rendere l'azione dissolvente dell'acqua più uniforme. A bollitura ultimata, i mazzetti venivano estratti dalla caldaia per essere raffreddati, quindi riuniti in fasci di venti ciascuno, venivano di nuovo trasportati alle fiumare dove restavano immersi nell'acqua per circa otto giorni sotto il peso di grossi massi, per evitare che la corrente del fiume potesse trascinarli via e per macerare la corteccia che riveste i rami e che costituisce la materia prima. All'ottavo giorno, i mazzetti venivano tolti dall'acqua e stropicciati con la sabbia delle rive del fiume per togliere la viscosità che si era formata, e quindi, risciacquati ancora una volta, si cominciavano a scorticare. Si otteneva la fibra grezza e la rama nuda , cioè la parte legnosa, che asciugata al sole, serviva per accendere il fuoco. La fibra grezza veniva posta su grosse pietre in riva al fiume e battuta con una mazza di legno (copano) per liberare i fasci fibrosi dal tessuto corticale. I mazzi venivano quindi risciacquati più volte e messi ad asciugare al sole fino ad assumere il colore iankulinu, si avevano cosi le stuppe , delle filaccie grezze molto grossolane. Finiva qui il primo ciclo di lavorazione della ginestra all'aperto e iniziava a casa il secondo ciclo. Le stuppe venivano adoperate per fabbricare grossi cordoni. Per ottenere fibre per gli usi tessili, si continuava il ciclo di lavorazione. Le stuppe ben asciugate venivano nuovamente battute con le mazze e allargate con un arnese di legno a forma di coltello; quindi le donne, aprendole con le mani tiravano fuori la parte soffice della stuppa karminata da cui si ricavavano sacchi e teloni. Per ottenere invece tessuti per le lenzuola e le tovaglie, occorreva sottoporre la stuppa alla cardatura: si preparavano due tavolette di legno anche di forma circolare e ricoperte di cuoio su cui erano infissi decine di chiodi. Tra i denti di queste spazzole, fissata su una scala a pioli, si metteva la stuppa e si ricopriva con l'altra metà, in modo che la stuppa, scorrendo si allungava dando origine all'ordito, mentre la fibra rimasta tra i due denti del cardo, dopo filata dava origine al filo per la trama. Le fibre, del peso di 200-300 grammi, venivano poi filate mediante la rocca e il fuso e poi lavorate al telaio.

In dialetto locale la ginestra veniva detta cordicedda , per la qualità più grossolana e rustica rispetto alle altre materie utilizzate.

L'importanza della ginestra nelle grandi industrie.

La ginestra (spartium junceum L.) è nota fin dall`antichità per il suo impiego come pianta da fibra. La stessa etimologia della parola greca “spartos” sta a confermare la tradizionale utilizzazione della fibra nella produzione di stuoie, corde, e manufatti vari. Oggi sembra che il mercato delle fibre naturali sia in forte crescita sia a livello italiano sia comunitario, grazie alle sue caratteristiche strutturali, la fibra è utilizzata come elemento in materiali compositi al posto di minerali o sostanze sintetiche. Diverse esperienze sono state condotte sull'idonietà della ginestra per la produzione di pasta cellulosa, con risultati lusinghieri, per le buone caratteristiche qualitative e meccaniche della fibra. Le fibre, ricavate dai suoi rametti verdi, le vermene, mostrano incredibili capacità di resistenza e flessibilità. Tali proprietà derivano dalla stessa struttura della pianta, un vero e proprio materiale composito naturale, perché la sua microfibra è inclusa in resistenti impasti di cellulosa ed emicellulosa, unito da leganti come la lignina. Dalla lavorazione della pianta si ottengono quali importanti sottoprodotti parti legnose o cellulosiche, che possono essere utilizzate nell'industria pannellistica, essenze odorose per i profumi, il colore giallo naturale, estraibile dai fiori, utilizzabile in tante applicazioni, tra cui le tinture per capelli e la sparteina, un alcaloide avvincente del cuore ad azione diuretica L'impiego però più promettente della ginestra sembra essere quello in campo automobilistico. Dopo anni di ricerche, finanziate con l'apporto di numerosi progetti comunitari, il Centro Ricerche della Fiat ha cominciato il collaudo di plance e sportelli realizzati con una combinazione di miscele plastiche e ginestra. Le vermene sono, infatti, un ottimo sostituto della fibra di vetro, la quale ha il grave difetto di non essere riciclabile. Il vermene inoltre è difficilmente infiammabile, e in caso d'incendio della vettura riduce la tossicità delle esalazioni da combustione. L'utilizzo di fibre simili, come quella di lino, pianta autoctona del nord-Europa, è già ampiamente diffuso nel settore automobilistico e inserito stabilmente nella produzione d'Audi, Mercede e BMW. Le fibre naturali dunque rappresentano un elemento fondamentale per la creazione d'autovetture ecocompatibili, al punto che nel 1999 la Commissione Europea ha stanziato otto milioni d'euro, circa 15 miliardi di lire, per il progetto “ecocomp”, che coinvolge oltre a diverse case automobilistiche europee, diverse industrie elettroniche e aerospaziali e, per l'Italia, la Facoltà di Scienza dei Materiali di Terni.

A Longobucco esisteva un ginestrificio che serviva a trasformare le piante, nate spontaneamente sulle pendici delle montagne, in fibre che poi venivano lavorate ai telai. Dopo spaventosi terremoti, il ginestrificio fu demolito per far posto alle case popolari, nonostante esistevano altri posti edificabili, occupati però, dagli orti che erano di fondamentale importanza per la sussistenza alimentare; così si è cancellato un pezzo di storia di Longobucco, un segno del suo passato, un reperto di archeologia industriale.